Angels dance and angels cry

Posted on 22/04/2011

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“Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli 

In quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori 

lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano 

quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano. 

Se tu penserai, se giudicherai 

da buon borghese 

li condannerai a cinquemila anni più le spese 

ma se capirai, se li cercherai fino in fondo…

 se non sono gigli son pur sempre figli 

vittime di questo mondo.”  Fabrizio “Faber” De Andrè

Un pomeriggio placido come tanti. Il sole arancio del tramonto si insinua tra i rami dei peschi degli alberi delle villette di strada Alessandria, una delle vie del quartiere via Trento dietro alla stazione. Proprio sopra il cantiere (uno dei tanti) del magnate delle costruzioni di Parma, Bonatti, da un paio di anni, o forse più, è attraversata da camion colmi di cemento, gru e operai di ogni lingua. Il cantiere che ospiterà uffici e alberghi, disegnato dall’architetto spagnolo Boigas, elogiato da tanti come il progetto che salverà il quartiere dalla microcriminalità, si sta allargando. E dopo aver buttato giù un palazzo (il primo di tanti) che prima faceva da parcheggio per i dipendenti di Trenitalia (ndr) ora è spazio che serve ai camion che alimentano le fondamenta del cantiere di cemento.

Sembra quasi che la via non sia abitata: il rumore continuo domina i rumori della vita quotidiana, le persone che passano escono di casa, vivono, sembrano fantasmi rabdomanti. Il passaggio delle vite umane è costruito intorno allo spazio adibito per le pertinenze del cantiere, costituendo un perimetro a ferro di cavallo largo all’incirca un metro. Il cantiere vero e proprio invece sembra quasi un mostro, di quelli che si vedono nei cartoni giapponesi futuristici tipo Akira. Una trama complicata di travi di metallo e cemento alte fino al cielo a ridosso delle casette bianche e gialle, più modeste e umili. Quando tutto tace alla sera dà quasi l’impressione del mare di notte: calmo e minaccioso.

Poi ci sono i reietti. Quelli di poco conto, che spacciano, che sarebbero disposti a tradire per un euro. Sono loro quel quid, fuori dallo scalpiccio ordinato delle biciclette di via Garibaldi o dalla movida chic di via D’azeglio: sono bestie umane, secondo cui ad ogni effetto corrisponde a una reazione, senza mezzi termini, reagire senza pensare vuol dire sopravvivenza. Sono italiani del meridione, del settentrione e africani. Sono adulti o giovani, tossicodipendenti. Assumono e vendono per sopravvivere, uno zucchero marrone dal quale dipende la loro esistenza.
E’ proprio qui, nella stradina nascosta di via Trento che si consumano piccole tragedie quotidiane che non hanno trafiletti, che non saranno mai conosciute ne immaginate da nessuno.

Sotto la cappa di rumore del cantiere tre giovani un africano e tre italiani discutono animatamente per questioni di gerarchia. Il potere lo detiene il ragazzo italiano che si porta dietro una ragazza stanca con i pantaloni da militare hippy; il ragazzo africano è arrabbiato: quello cerca di fregarlo e lui non vuole avere niente più a che fare. E’ arrabbiato, lo si nota benissimo dallo sguardo, ma appena mi vede cerca di prendere un altra via per non farmi capire nulla. L’altro invece se ne frega. E continua a ripetere che lo avrebbe licenziato perché a quanto pare il ragazzo africano si è tenuto un euro in più. E’ fatto, e la ragazza ancora peggio. Cerco di capire se l’episodio ha un collegamento con le decine di scatole di metadone che erano sparse per il passaggio di vite umane qualche giorno prima e che erano state fatte accuratamente sparire. Anche se di economia ne capisco poco. Intanto il lavoro e il progresso continuano a coprire i rumori del giorno. Di notte se qualcosa accade rimane coperta da un maestoso silenzio.

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